L’attività fisica e lo sport hanno positive ricadute sulla salute
cardio-metabolica, sulla prevenzione della demenza e sul rallentamento
del declino cognitivo.
Negli ultimi anni tuttavia, sono andate aumentando le evidenze di un
aumentato rischio sul versante cognitivo e neuropsichiatrico per gli
atleti degli sport di contatto; perché i ripetuti traumi cerebrali ai
quali sono esposti, aumenterebbero il rischio di patologie
neurodegenerative e di encefalopatia traumatica cronica (CTE). Ad
aumentare il rischio neurologico non sarebbero tuttavia di colpi forti,
quelli responsabili di concussioni sintomatiche, ma il ‘conto’ totale
dei ripetuti impatti ricevuti alla testa, compresi quelli
‘subconcussivi’ e asintomatici. Questi appaiono infatti correlati alla
presenza di marcatori di neuro-degenerazione in vivo e, più avanti nel
corso della vita, alla comparsa di disturbi neuropsichiatrici e
cognitivi.
Uno studio epidemiologico retrospettivo di Daniel F. Mackay e colleghi, appena pubblicato sul NEJM e condotto su un gruppo di 7.676 ex-calciatori professionisti scozzesi, getta nuova luce sulle conseguenze a lungo termine del giocare a calcio a livello professionistico. La coorte di sportivi è stata confrontata con controlli della popolazione generale in termini di cause di mortalità e utilizzo di farmaci anti-demenza. La mortalità da cause non neurologiche è risultata inferiore tra gli ex-giocatori professionisti, fatto questo che conferma la validità dello sport nella prevenzione cardiometabolica; tuttavia la mortalità da malattie neurodegerative è risultata superiore nel gruppo degli ex-sportivi professionisti, come anche l’uso di farmaci anti-demenza.